Comunicato del collettivo in merito a quanto accaduto a Kahn Yunis
Per tutta la durata del pomeriggio non sono riuscito a togliermi di testa un’immagine: quella di una pecora.
Non una pecora come tutte certo, o forse sì, non lo so. Nel disegno che avevo chiarissimo in mente la pecora non era visibile. Eppure posso assicurarvi che c’era - solo che era in una scatola, ma tranquilli: su di essa erano stati disegnati in fila anche tre buchi, per permetterle di respirare.
Capita che di domenica mattina ti arrivi un messaggio sul gruppo della redazione. E’ Gaia.
Ora, per andare avanti è importante sapere che conosco Gaia da quando io ero un “aspirante” animatore al primo anno di oratorio estivo e lei, che di anni ne aveva 14, era la figlia di Emanuela.
Perché è così che l’ho chiamata per un po’.
Sua madre era venuta in oratorio per tenere un laboratorio di circo.
Ellisse di 5 anni ed eccoci al messaggio: “Pomeriggio siamo in piazza a Brugherio a fare un laboratorio di circo, se volete venite pure”.
Non ho neanche finito di leggere il messaggio quando ho già preso una decisione.
Verso le 15 salgo sulla mia bici e imposto il navigatore.
Una decina di chilometri dopo vedo in lontananza, in fondo alla strada una piazza piena zeppa di gente, bancarelle, un palco su cui ballano, un tizio vestito da Spiderman, due della Protezione Civile, il rocchettone rosso che conosco benissimo e Gaia, ovviamente in uniforme da animazione, con una gonna in tulle blu acceso sotto una maglia fucsia, accostamento cromatico che mi fa stupire di non averla notata qualche centinaio di metri prima. Ah, e una cravattina verde con i brillantini, accessorio indispensabile per completare il look.
Dopo un paio di risate per la situazione e per la sorpresa di vedermi arrivare in bici, sudato come se avessi appena vinto un triathlon, lego il mezzo e mi metto in ascolto, osservando attentamente come poter essere utile in qualche modo.
Guardandomi intorno mi balzano immediatamente all’occhio gli strumenti del mestiere dell’artista di strada, molti dei quali già conosco bene anche se li avevo visti solo nel contesto dell’oratorio. Riconosco i trampoli, il foulard, i piattini con le loro asticelle per farceli girare sopra.
Guardo i sorrisi rassicuranti di Emanuela che, con una professionalità che è frutto di decenni di esperienza e che è tradita solo dai pantaloni gialli fluo, fa vedere ai bimbi come far roteare i piattini sulle bacchette, o come sbrogliare lo yo-yo (che ho scoperto successivamente chiamarsi "Diablo"), o ancora come stare in equilibrio sui trampoli.
Guardo Gaia che conosco come una sorella e che qui è a casa, perché tra questi attrezzi, molti dei quali ha costruito con il padre nel cortile di casa, ci è nata e cresciuta, e per lei nel camminare in equilibrio su un cilindro rosso non c’è nulla di insolito.
E mi ci butto pure io.
Perché sì sono un fotografo, e sono venuto con la scusa di raccontare attraverso la mia fotocamera ciò che sto vivendo, ma so benissimo che non posso farlo da fuori, perché non ne sono capace.
E anche perché sono passati 5 anni da quelle prime volte da “aspirante” e oggi sono un animatore anche io. Questo è anche il mio mondo. E anche io indosso dei pantaloni arancioni acceso e una maglietta verde acqua.
Vado ai trampoli, con cui non ho mai veramente provato a camminare, ma tanto - Gaia a parte - non lo sa nessuno. Aiuto i bimbi a salirci su e poi, con uno sforzo che viene più dalle mia braccia che dalle loro gambe, facciamo un giro, finché non si stancano.
Ogni tanto anche qualche adulto mi chiede se può provare.
Esattamente allo stesso modo dei bambini gli faccio vedere da che lato si sale e come tenere le braccia, poi li tengo da dietro e insieme facciamo un passo per volta. Loro si fidano di me e si lasciano andare, confidando probabilmente più nella scritta “Animatore” sul retro della mia maglietta che nel diametro dei miei bicipiti.
L’unica vera differenza tra un bimbo di sei anni e uno di quarantacinque, sta nello sforzo che devo fare io, per evitare di cadere rovinosamente sui sanpietrini con lui.
Riesco dopo meno tentativi del previsto a far girare il piattino, con la tecnica insegnatami da Gaia anni fa e che non credevo assolutamente di ricordare. A fianco a me ci stanno provando da almeno una mezz’ora altri due bambini un po’ cresciuti. Uno ha una maglietta rossa e un sorriso ancora più rosso, è venuto con la nipotina che si chiama anche lei Gaia e che lo incita a riprovare ogni volta che il piatto cade a terra. Dopo poco, tra gli applausi della moglie e della nipote, riesce a mettere in fila tutti i consigli e il piattino rimane in equilibrio a girare sulla bacchetta. In quel momento, ne sono assolutamente certo, è la persona più felice del mondo.
L’altro bambino che sta provando da un po’ ha circa quarant’anni, indossa una camicia azzurra e probabilmente è qui con la figlia, anche se non ho ancora capito chi sia. Non so come si chiami nel mondo degli adulti, ma nel mio un nome ce l’ha, lui si chiama Perseveranza. Suona un po’ strano lo so, ma lo ha vinto lui senza ombra di dubbio: è dalle quattro e mezza che sta provando e continuerà imperterrito, tentativo dopo tentativo, fino alle sei e mezza.
Alla fine è andato via sconfitto dal piattino, ma felice di essere riuscito a camminare da solo sui trampoli.
Una mamma faceva l’hula-hop come fosse una cheerleader al super bowl mentre le amiche la guardavano e ridendo cercavano di fare del loro meglio per imitarla.
Un’altra ha preso lo yo-yo: “da piccola lo sapevo fare”.
Un altro pensiero si accosta nella mia mente a quello della pecora: gli adulti giocano.
È una affermazione semplicissima, me ne rendo conto, eppure nel nostro laboratorio, chiaramente indicato sulla locandina dell’evento come “arte di strada - laboratorio per bambini” ci sono un sacco di adulti che si ricordano come si gioca.
Ed è un pensiero semplicissimo ma di cui inconsciamente percepisco il peso rivoluzionario.
Forse i bambini giocano per far giocare anche i loro grandi.
Forse il senso di quello che stiamo facendo è più profondo del lanciare palline e riafferrarle senza farle cadere, aspettandosi giustamente ogni volta un applauso. Perché anche un gesto semplice come prendere al volo una pallina appena lanciata in aria può, anzi, deve meritare un applauso. Soprattutto se tra il lancio e la ricaduta riesci a battere le mani per ben due volte.
Ogni tanto qualche bambino prende un gioco, me lo mostra e mi chiede: “Come si usa?”
E la risposta che do, l’unica che posso dare è: “come vuoi, non ci sono le istruzioni e non c’è un modo giusto di usarlo, usa la tua fantasia”.
C’è una bimba carinissima che ha dato la manina a Gaia e sembra non volerla lasciare più. Si chiama Mia. Porta Gaia a spasso tra un gioco e l’altro e li usano insieme. Quando ti inginocchi per parlare con un bambino hai una sensazione strana. Mi sembra che anche i suoni cambino un po’. Come quando ti immergi al mare ed entri in un altro mondo.
Cioè, lo stesso mondo, ma visto dal basso.
Ad un certo punto prima di andarcene Mia ha chiesto a Gaia se poteva provare e scattare una foto con la mia fotocamera.
Ho sorriso da un orecchio all’altro.
Assolutamente sì.
Mi sono abbassato sulle ginocchia, alla sua altezza, le ho preso le manine e insieme abbiamo afferrato la macchina. Ha inquadrato, e quando mi ha detto di essere pronta ho guidato il suo minuscolo ditino fino all’otturatore: uno… due… tre… Click!