Il tramonto di venerdì 4 ottobre porta l’oscurità ad Arcore. Le vie più lunghe si stendono come raggi dalle gelaterie del centro all’orizzonte e alle nuvole arancioni che vi stanno sopra. Tra le file di auto, il silenzio abbonda, tagliato dall’andare della bicicletta che porterà l’ultimo animatore alla propria seconda casa: via Donizetti. Sotto alla staticità dei balconi e delle strade, in una stanza seminterrata c’è una luce. Dei ragazzi stanno portando avanti gli ultimi preparativi: chi dipinge, chi scatta una foto, chi gioca a pingpong, chi si diverte a inseguire un pallone con ossessiva energia, chi, con in mano una bomboletta, scarica la sua mente sulla porta d’ingresso.
Un punto di domanda, un cuore, una stella.
Quando è ora di dormire, la presenza rumorosa di questi ragazzi si sposta lentamente in alto, da uno spazio all’altro, per arrivare in un vasto appartamento. Lì il vuoto lasciato dalla scomparsa del don è stato rimosso già da tempo, lasciando solo un arredamento elegante e immobile. Ci si insedia nelle stanze, ricoprendole con federe e sacchi a pelo, ciabatte e spazzolini. Per la prima volta da molti anni, quel luogo torna ad essere una casa, torna a traghettare qualcuno, attraverso i materassi, dalla preghiera della sera a quella del mattino, e poi alla colazione e alla porta d’uscita.
Per la prima volta l’alba non risveglia soltanto il candore della ghiaia, ma anche un respiro tra le mura dell’oratorio. Una tapparella schiude lo sguardo sul cortile, corredato dalle bandierine che saltano da un palo all’altro, che sussurrano la festa all’immobilità del campo.
La mattina che segue è un viavai di persone che accorrono in aiuto per qualche ultima sistemazione: il palco e i cavi che lo corredano, le postazioni degli alpini, i materiali mancanti per il gioco. Tra un impegno e un attimo d’ansia, il tempo scorre sempre più veloce: poco dopo pranzo il cortile e il bar iniziano a popolarsi delle prime famiglie, con bambini di ogni età che corrono in lungo e in largo dietro ad un pallone. Quando la folla si avvicina e l’attenzione viene rapita a sufficienza, tutti si dividono in squadre. Sta per iniziare la caccia al tesoro.
Durante il gioco le sfide più varie corredano l’orizzonte: bambini e genitori tirano con l’arco, oppure -concentrati - tengono una pallina sulla punta di un cucchiaio, oppure ancora si districano in bici in un percorso a ostacoli o tirano a canestro. Mentre all’esterno la luce delle ultime ore prima del tramonto si mescola all’entusiasmo generale e alla musica delle casse, all’interno qualcuno sta sistemando delle foto. Per la prima volta, Emma Bricco e Luca Busillo aprono una piccola mostra fotografica. In un religioso momento di creatività, questo piccolo gruppo di ragazzi comincia ad appropriarsi di una piccola ma infinita aula. Le foto iniziano a tappezzare il muro e a scorrere sullo schermo… i soggetti? Niente meno che i bambini dell’oratorio estivo. I loro volti e i ricordi, arroccati sulla parete, danno una nuova luce alla stanza. Dentro ogni immagine e ogni pezzo di carta, uno sguardo.
Sguardo con dentro una folle energia negli occhi, e, adagiata sul fondo di quelli, sempre una storia. Quelle storie pesanti come macigni, impossibili da raccontare se non con un istante che si fa sorriso, con un sorriso che si trasforma in abbraccio. Quell’energia come un vulcano torna poi a infuocare il cielo, la terra, il cortile, il gioco: una capriola e il passato più grigio svanisce. Così erano i bambini, come saette, qualche mese prima, tra quelle stesse mura, pervasi da un’inarrestabile voglia di correre, vedere, toccare; e così le foto in bianco e nero si alternano sul televisore della stanza iniziando a raccontarsi ai visitatori. Un volto illumina la penombra: ecco che inizia la spiegazione di Emma, ecco gli ascoltatori già nelle sue mani, eccoli irradiati dalla stessa luce.
Fuori il sole ha deciso diversamente, volge alla sera, portando con sé la fine delle corse e dell’agitazione, mentre un numero sempre maggiore di persone si siede ai tavoli per cenare. Non tanto dopo il calare della notte fa da complice alla stanchezza che si è accumulata, lasciando solo poche lucine colorate, dimenticate accese al centro del cortile e assediate dal buio.
Con l’alba di domenica, si sveglia una comunità. La rugiada è calata dal cielo ricoprendo ogni cosa di un fitto gregge di goccioline. Nell’appartamento dove hanno dormito ancora una volta gli animatori, ci si alza nuovamente. Dopo la colazione, la frenesia del sistemare e pulire li riconduce alla porta con le loro valigie, lasciando quasi tutto com’era prima, per poi scendere al piano terra e fare mente locale. Senza perdere tempo, giovani, adulti, bariste, catechiste e parroci si lanciano nelle ultimissime sfide tecniche, tra le quali trasportare la grande statua lignea della Madonna che darà vita al corteo, al di sopra di un camioncino corredato di azzurro e bianco, ricoperto di fiori. Qualche attimo dopo, tutto è pronto: i chierichetti e il parroco Virginio sono accerchiati dalla folla e da una nube d’incenso. Come non accadeva da diversi anni, i cancelli dell’oratorio tornano a fare largo alla processione della Regina del Rosario, seguita da un gruppo quanto più vario di persone, tra bambini e nonni, genitori e passeggini. Il legno della statua torna a dialogare con le nuvole in cielo dopo chissà quanto tempo, mentre le canzoni e le preghiere scandiscono lente e inesorabili la marcia delle tante persone accodate.
La messa successiva non accoglie solo il ritorno della Madonna, ma anche la prima celebrazione di Don Virginio, avviandolo verso un passo in più nell’abbracciare la comunità che gli girerà attorno. Ognuno lo accoglie a modo proprio, perfino i giovani più irriverenti hanno fatto sì che la notte partorisse degli striscioni di benvenuto, pur lasciando la serietà quanto più possibile lontana. Dall’avere in mano i cartelloni si passa presto ad avere in mano i vassoi, trasportando i primi ed i secondi che, come musica, escono dal “golfo mistico” di tavoli e teglie dove stanno freneticamente operando gli alpini. Una volta serviti i tavoli ci si può tranquillamente cibare da soli, accanto al cantare degli alpini e al suonare della banda, affamati ma immersi in una singolare atmosfera.
Il sole si prospetta a implicare, nel suo splendere, un pomeriggio intenso. Come il giorno prima, una voce al microfono richiama l’attenzione di genitori e bambini verso la stessa formazione semicircolare attorno al palco, per dividerli ancora una volta in squadre, dando via al palio. La prima sfida si stende sul campo: due squadre gareggiano muovendo goffamente un piede dopo l’altro su dei lunghi sci di legno. Destro, sinistro, da un birillo ad un altro, una squadra sull’altra prevale, riesce a masticare una favolosa coordinazione e arriva al traguardo senza ingolfarsi nelle curve, scandendo un ritmo incalzante. Lo spettacolo basta e avanza per creare una densa coltre di spettatori, quando la voce di Angelo annuncia un altro gioco. La seconda sfida vede adulti e piccoli corrersi incontro con una grande palla, stando in equilibrio su un’asse di legno, con l’obiettivo di portare l’avversario ad appoggiare i piedi a terra. Ognuno affronta chi gli spetta, mentre la tenacia e la decisione danno prova di bilanciare la spinta più forte, al più portando a concludere con una grande risata. Nei due giochi successivi entra nuovamente la corsa: ci si trova dapprima circondati di bambini che viaggiano portando i pezzi di un tris, poi dal frenetico arrotolarsi e srotolarsi di chi gareggia per spedire il proprio chiodo dentro al ceppo, mancando puntualmente il colpo del martello a causa del continuo turbinare.
Malgrado il coinvolgimento e l’allegria nel rincorrersi, le gare volgono al termine. Il nostro Grant non vede l’ora di prendere il palco insieme ai suoi amici: lui e altri quattro sorrisi iniziano ad animare il pubblico con un po’ di danza. Le aspettative di chi, non conoscendo, li vede mostrare i tratti della trisomia vengono sbaragliate da un ritmo ed un’agilità ammirevoli. Uno dei membri del gruppo si fa avanti: è pronto a fare di più. Un rapidissimo cambio di costume lo trasforma in Michael Jackson e il monopolio della scena viene preso da lui, con uno stupefacente assolo. Le scarpe sul fragile legno come olio su una tela di note, e un ritmo che fa breccia negli spettatori. Lo stupore non finisce quando toglie il cappello, anzi continua ad oltranza nelle performance dei suoi compagni. Attorno a loro una ricca partecipazione, dai piccoli agli anziani, questi ultimi, a volte sorprendenti, sfoggiano un movimento irrefrenabile.
Nel vortice del gran finale di vari tornei di calcetto, ping-pong e lotterie, attorno al palco è sempre più una nuvola di visitatori insoliti a prendere posto con le musiche più disparate. Anche l’imbrunire di questa giornata diviene realtà, mentre le famiglie svuotano pian piano l’oratorio della loro presenza. A quell’isola di ragazzi che sono rimasti ad assediare le pedane e la musica arriva infine una voce.
È pronta la cena.
Torna l’oscurità sui tetti e sulle strade di Arcore. Le vie più in periferia come lame affondano nel buio i loro punti di fuga accompagnati dall’intervallarsi dei lampioni. In mezzo alla staticità dei balconi e dell’asfalto, in un salone al piano terra c’è una luce, splendente su una lunga tavolata imbandita di pasta, focacce e qualche bicchiere di vino. Tutti quelli che hanno avuto a cuore la festa sono presenti, tutti allo stesso modo essenziali: bambini, ragazzi, animatori, giovani, educatori, catechiste, genitori, bariste e nonni. Niente ci rende un gruppo più della certezza di trovare braccia aperte ovunque volgiamo lo sguardo all’interno di queste quattro mura. Niente ci dona fiducia l’uno verso l’altro più di sapere che siamo qui tutti per la stessa gratuità nel donarci a qualcosa di più grande. Questo fa di noi il respiro di un oratorio… una comunità.
Mentre tutt’attorno il vociare della serata consuma il tempo che rimane al finire del weekend, nella penombra le foto della mostra sono rimaste appese. Sotto il loro sguardo, un grande zaino appoggiato in un angolo contiene tre grosse macchine fotografiche. Il vero racconto della festa è impresso per sempre dentro quelle scatole.
Una corsa, una martellata, un abbraccio, un’esultanza, un sorriso.
Non molto dopo, le stesse indelebili impressioni varcano il cancello e montano in bicicletta con gambe e braccia, riportando a casa l’ultimo animatore. La sua spensierata allegria taglia il silenzio tra le file di auto come due giorni prima, cullata da un cielo nero che è un po’ più sogni e un po’ meno piombo.
Daniele Santospirito - Eppure Soffia