Il confine Italia-Slovenia, pur marcando una linea immaginaria, porta con sé subito un segnale tangibile: i cartelli stradali diventano incomprensibili. Non solo. Si sconfina in un paesaggio collinare, contrapposto agli immensi campi della pianura Padana, nel quale il verde domina e si articola su varie rotondità , mai ripetitive, fino all’orizzonte. Il paesaggio, seppur sferzato dal sole pomeridiano di metà luglio, sa concedere quella tranquillità che sta nella certezza di trovare il medesimo ripetersi di rilievi, laddove uno di essi ci blocca lo sguardo. È dopo diverse decine di chilometri che ci si affaccia su una vasta depressione del terreno.
Lì si adagia la continuazione della nostra strada, sempre più minuta, tra file dolcemente casuali di alberi e prati dal taglio impeccabile, lambiti da quei larghi torrenti che, nell’occasione giusta, sanno trasformare il Polje in un enorme lago. Attraversato questo singolare fondovalle, ci si eleva leggermente a trovare Planina, un nucleo di case sparse attorno ad una chiesa, che diventano fattorie man mano che ci si allontana da essa.Â
Tutto il paese è a ridosso di un rilievo boscoso di circa duecento metri, capace di celare le ultime luci del tramonto, ma non le prime dell’alba, che hanno infatti saputo far visita al nostro alloggio con largo anticipo rispetto alla sveglia. L’unica strada presente, percorsa ad ogni ora da trattori di varia forma e dimensione, separa la chiesa di Planina da un grande edificio bianco, il centro locale Mariapoli.
Lì dove un tempo sorgevano il rudere di una fattoria e di un fienile dalle condizioni precarie, la fine della dittatura ha portato spinte per una nuova speranza. La guerra in Slovenia, come ha saputo spiegarci Sylvester, ex impiegato al ministero della cultura di Ljubljana, è durata fortunatamente solo pochi giorni. È stato grazie a questo clima di rinascita che si sono potuti incontrare uomini e donne del Movimento dei Focolari con un obiettivo comune.Â
In pochi anni è stato possibile relegare ogni memoria del grigio rudere alle fotografie d’epoca, lasciandosi dietro uno splendente ostello bianco capace di ospitare le più varie persone ed esperienze. Delle meravigliose pope (così nel Movimento vengono chiamate le signore che gestiscono questi centri) che, a loro tempo, hanno preso parte all’impresa, abbiamo potuto incontrare solo le due focolarine che ancora oggi sono rimaste a prendersi cura del luogo e dei suoi ospiti: Speri e Juju. Ci hanno saputo raccontare attentamente la storia del luogo, ma ancor più meticolosamente si sono fatte carico di tutti i problemi che poteva comportare ospitare 46 persone.Â
Grazie anche ad una sufficiente padronanza dell’italiano data loro dalla vicinanza con il confine, ma soprattutto ai tanti sorrisi che hanno composto buona parte del loro e del nostro vocabolario, non è stato difficile esprimere la nostra gratitudine.
Dobbiamo ringraziare questi straordinari individui, molti dei quali non potremo mai conoscere di persona, se sono state messe le basi, non solo per rendere possibile questa esperienza dal nostro punto di vista, ma anche perché noi potessimo aiutare e fare la nostra piccolissima parte per la popolazione locale. Tutto ciò a testimonianza del fatto che l’amore contagia, stravolge, dà l’esempio, guida verso una comunità , in questo caso così astrattamente grande da non potersi percepire con i sensi. Anche questo rende il movimento dei focolari una realtà inimmaginabilmente trasversale, priva di confini.
Speranza, detta Speri, una delle "Pope", le signore che si prendono cura del Centro - Emma
Silvia, detta Giugiù, la "Popa" incaricata della cucina, che oltre che di zuppe ci ha riempito di sorrisi, e pur parlando poco italiano ci ha saputo dimostrare il suo affetto ad ogni sguardo - Emma
Una veduta del Centro Mariapoli, con lo sfondo delle colline coperte di boschi che parevano senza confine - Luca
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